Parlando con Dio

Quello che mi distingue  da molti altri artisti: nell’arte mi confesso.
Rafael Arutjunjan

Questa affermazione di Rafael Arutjunjan è messa all’epigrafe dell’articolo non a caso. E la chiave per comprendere la sua opera artistica. Tutta la sua vita l’artista è in un dialogo interiore con Dio e si confessa davanti alla gente. Per la percezione cristiana del mondo confessarsi è un principio centrale del dialogo divino-umano e la norma ideale di comunicazione laica. Nell’ambito di tale norma l’artista e vive, e agisce.

In letteratura esistono magnifici esempi di confessione: le opere di Sant’Agostino, Rousseau, Tolstoj… I grandi scrittori hanno usato questo genere come una sincera relazione sulla propria vita, sui pensieri, sui movimenti dell’anima. E l’unicità dell’opera di Rafael Arutjunjan, che lui ha realizzato le leggi del genere letterario e il contenuto dei concetti filosofici e teologici nelle coordinate della scultura, disegno, pittura e poesia, nella realtà di tutta la sua vita. La natura confessionale della sua arte, insieme con le caratteristiche del suo metodo creativo, da un lato, pone Rafael Arutjunjan nella medesima riga con i più importanti architetti del nostro tempo, e dall’altro lato, permette di distinguerlo ed evidenziarlo in modo sufficiente.

Un rinomato critico d’arte, Boris Moiseevich Bernshtein, che era insegnante dello studente Rafael Arutjunjan, e con cui, secondo le sue parole, «si sono stabiliti i rapporti lunghi e caldi» per tutta la vita, ha definito l’isolamento dell’artista: «Lo chiamerei uno uscito al di fuori del contesto. Ciò accade con i profeti, con i giusti, con i donchisciotti, con gli artisti; può essere qualsiasi scala, ma il principio è lo stesso: non discuto con il secolo, non me ne accorgo». Questa definizione, incredibilmente precisa, dell’essenza della creatività di Rafael Arutjunjan e del suo posto tra gli altri maestri richiede qualche spiegazione.

La confessione è l’analisi di se stesso, un tentativo di vedersi dall’esterno. Ma si può farlo solo se l’«ego» intrinseco di una persona è in grado di dividersi a quello che agisce e quello che osserva. In altre parole, a un uomo interno e quello esterno. Cessando di identificarsi con il flusso della vita, una persona umana diventa un essere fuori tempo, attaccato ai valori eterni. Coloro che non vi rende conto, che non ha seriamente pensato al senso profondo del cammino della vita, galleggia sulla superficie della vita e non ha coraggio di immergersi nelle profondità.

Quello che Bernstein chiama «uscito al di fuori del contesto», non è altro che l’aspetto più importante dell’arte sincera di Rafael Arutjunjan, è la sua capacità e il coraggio di emergere dal flusso della vita e vedere le cose (e se stesso) dall’esterno. Più avanti vedremo come questa visione è espressa nelle opere di maestro.

Non meno vera e l’altra fila associativa delle affermazioni precedenti: profeti, giusti, donchisciotti, artisti. Noi, contemporanei di Rafael Arutjunjan, non possiamo sapere di quanto profetica è la sua attività creativa. Definire questo può solo Sua Maestà il Tempo. Ma siamo ben consapevoli com’è la vita dei giusti, per i quali valori stanno combattendo donchisciotti e quali sensazioni risvegliano artisti. Quindi, vi invitiamo di conoscere la vita e l’arte di Rafael Arutjunjan, e cercheremo di capire il suo mondo interiore e di sentire quello che sussurrano, dicono e gridano le sue opere.

***
Rafael Arutjunjan è nato nel 1937 a Baku, in una piccola camera affittata sulla soffitta, da Suren e Gohar Arutjunov: in quegli anni i cognomi armeni e anche i nomi sono spesso trascrivevano nello stile russo. Nella sua famiglia c’erano molte personalità brillanti ed extraordinarie.

Il bisnonno materno di Rafael Grigor Melik-Shahnazarjan ha fatto tanto per il suo paese, ha ricevuto dal re il titolo nobiliare, e ha aggiunto il prefisso «Melik» al cognome, che significava «principe». Ha vissuto a Nagorno Karabakh ed era padre padrone nel suo villaggio e nella sua famiglia. Era amato e rispettato, in primo luogo, perché è diventato ricco in modo onesto, e in secondo luogo, era rinomato per la sua correttezza, cordialità, ospitalità e perché sempre aiutava i poveri. Grigor ha avuto uno splendido podere: un palazzo da quindici camere, ampia cantina con vini d’annata, un frutteto enorme …

Il bisnonno paterno di Rafael Galust Arutjunjants era il rovescio di Grigor. E nato e cresciuto in Armenia, in una famiglia contadina, e ha ricevuto la professione prestigiosa nell’epoca: il ciabattino freddo. Ma Galust non è stato creato per la vita misurata e monotona. L’anima di un ribelle e una sete di avventura l’hanno portate a Baku. Ma anche qui, lui non riuscì bene perché era pigro e gli piaceva dormire, però, era famoso per il suo coraggio e ardimento.

Il nonno paterno Christophor Arutjunov era un ricco mercante ed ha tenuto negozio, che vendeva le lingerie di fabbricazione estera. Il nonno materno Ovaghim Rafael ha mai visto. Lo stesso anno, quando era nato, il vecchio sessantenne con l’etichetta di «nemico del popolo» hanno deportato in Siberia e hanno costretto a lavorare al taglio del bosco, dove presto morì. Ovaghim, naturalmente, non ha avuto alcun rispetto per i comunisti o Stalin avendo la sua lingua incontinente. «Il nemico del popolo» è diventato perche un giorno, seduto alla veranda con i suoi amici, ha detto che nei tempi dello zar il burro costava di meno.

Il padre di Rafael era militare, in servizio in Asia centrale, è stato fatto prigioniero dei basmaci ed ha guardato negli occhi della morte.

Nel suo libro «Memorie di un uomo», pubblicato nel 2003, Rafael Arutjunjan ha scritto: «Nella mia infanzia, come tutti i ragazzi, ero tanto fiero di mio padre, così forte e coraggioso, di chi gli altri papà temevano un po’, ma diventando più grande, sono diventato sempre più orgoglioso di mia MADRE e sono fiero di lei fino ad oggi, e vorrei tanto che anche tutti i miei discendenti siano orgogliosi di lei».

L’influenza della madre sulla formazione della personalità e del mondo interiore di Rafael era enorme. Proprio li bisogna cercare le origini della sua peculiare donchisciottesca, della sua poesia, del suo umanesimo. Ha fatto imparare suo figlio a porsi ambiziosi traguardi, e non abbassarli. Ha insegnato a rispettare, apprezzare e amare donna, a trovare la propria strada nella vita, senza raffrontarsi con gli altri, l’ha insegnato a essere indipendente, gentile e generoso.

Suo figlio grato ha trovato le parole più precise per caratterizzare questa donna straordinaria: «La mamma era amata da tutti, era impossibile non amare Galochka, tranquilla, gentile e molto mulierbe. Mia madre aveva un’aspirazione intrinseca per il bello, il nobile, aveva un bisogno inesauribile di arricchimento spirituale. Perdonava tutto a tutti, sempre pronta a correre in aiuto alla prima chiamata, ma senza mai perdere la sua dignità, anche quando la offendevano, è rimasta nella mia memoria quale un essere più luminoso che ho conosciuto nella mia vita».

E chiaro che il figlio, nato e cresciuto da una madre cosi, è proprio destinato a una lunga e spesso infruttuosa ricerca di quella unica che avrebbe avuto almeno una somiglianza remota con sua madre. Anticipando le cose, diciamo che qui Rafael ha vinto in lotteria la seconda volta nella vita. Ha incontrato la sua Dulcinea, che ha dato il significato, luce e forza alla sua vita, e lui durante tutti gli anni felicissimi di matrimonio non si stancava mai di fare i suoi immagini e la chiamava santa.

Ma torniamo a Baku, nel periodo sovietico di anteguerra e di guerra, e proviamo a indovinare in un ragazzo di strada a piedi nudi i tratti dell’artista maturo Rafael Arutjunjan. Non per niente si dice che tutto ciò che accade a noi nella vita adulta, inizia nell’infanzia. Rafael cresceva un litighino e prepotente, tutto il giorno giocava per strada e nei cortili circostanti, a volte con piccoli delinquenti, a volte con ragazzi ebrei diligenti. Non ha mai consultato nessun prontuario o dizionari, a differenza di sua sorella maggiore Emma, ​​che sempre teneva un libro alle mani. A sua propria dichiarazione, era più facile togliere la calotta di ghiaccio dal monte Ararat, invece di metterlo a leggere un libro.

«Dio ha dotato Emma con una mente analitica d’indagatore, e gettato uno sguardo a me, ha deciso di non spendere inutilmente un materiale così prezioso ed ha messo nella mia scatola cranica ciò che era a portata di mano, i resti di un pasticcio senso-contemplativo di qualità inferiore» – così con la sua tipica ironia Rafael descrive la differenza di carattere e dello stile di vita tra la sorella e il fratello. Tuttavia, ha dimenticato di menzionare che in realtà il «pasticcio senso-contemplativo» non risultava peggio di erudizione fondamentale di sua sorella.

Molto probabilmente che proprio questo «pasticcio» ha portato Rafael quindicenne al Palazzo Centrale dei Pionieri di Baku al circolo sculturale di Anna Ivanovna Kazartseva e l’ha costretto a cambiare la sua vita, suo ambiente, le proprie abitudini. Da questo momento, ogni giorno dopo la scuola non girellava più per le strade, si recava al Palazzo dei Pionieri ed imparava a superare la resistenza del materiale scultoreo solido.

La resistenza faceva anche la vita, e Rafael superava anche quello. Verso la fine della scuola si stabilì nel pensiero che sarebbe stato uno scultore. Tuttavia, non era molto facile di entrare in un istituto superiore degli studi d’arte: i posti erano pochi, i desiderosi erano numerosissimi. Come molti altri ragazzi, innamorati con il suo lavoro, tre volte ha presentato la domanda e tre volte non ha superato il concorso. Uno diventava ubriacone, uno si rovinava la vita, uno si ritirava. Invece Arutjunjan con ogni fallimento si diventava ancora più forte: «Nell’epoca il sole di speranza mi brillava, credevo che un giorno tutto si sistemi, i sogni diventeranno realtà ed io sarò scultore. E avrò una amica per tutta la vita, la moglie più devota e amorevole nel mondo. Devo solo resistere!» Non é una profezia? Nel 1958 Rafael è entrato alla Facoltà di Scultura dell’Università Statale di Belle Arti della RSS d’Estonia, e nel 1964 ha incontrato unico amore della sua vita, Irina, al terzo giorno le ha fatto la proposta di matrimonio, e due mesi dopo si sposò.

«Gli anni degli studi all’Università di Belle Arti erano molto fruttuosi» – ricordava Arutjunjan. – «Non sprecavamo il tempo. Abbiamo lavorato negli studi fino a tardi. Non mi distinguevo tanto tra gli studenti del gruppo, forse solo nella composizione. L’atmosfera era calda e accogliente, ma lo spirito di competizione stava certamente presente, ma non potrebbe essere altro». Il corpo docente dell’Università era molto forte, li hanno insegnato Jaan Vares, Olav Männi, Martin Sacks, Enn Roos, Boris Benrshtein. Sei anni di apprendistato all’improvviso hanno portato studenti alla soglia, quando dovevano dimostrare le conoscenze ottenute, fare la tesi.

Visto che nella storia dell’Università di Belle Arti Arutjunjan è stato il primo studente armeno, si prevedeva in qualche modo che lui sceglie per la tesi un soggetto nazionale, che gli è vicino, ad esempio, la tragedia del popolo armeno durante il genocidio turco. Ma entrò all’arte a modo suo: molto spettacolare, ad alta voce e tra la porta d’ingresso. La sua composizione di quattro figure, alta di due metri e venti centimetri sul tema «Gli ebrei di ghetto d’Odessa «era intitolato «Destinati» ed ha provocato un vero panico nella commissione esaminatrice, perché nell’epoca era abbastanza pericoloso anche pronunciare la parola «Ebreo».

Arutjunjan stesso ha spiegato cosi la sua scelta del soggetto: «L’Olocausto è stato e rimane una piaga incurabile fino ad oggi, quando i nazisti hanno ucciso più di sei milioni di persone per le fucilazioni e nelle camere a gas. E una cosa che non entra in mio capo. Inoltre, il tema stesso non era banale, pochissimi artisti, almeno nel nostro paese, avevano il coraggio di intraprenderlo. E un fattore di grande importanza per l’ispirazione creativa».

Boris Moiseevich Bernshtein, con chi Arutjunjan ha consultato quando l’idea ha appena cominciato di trovare una forma tangibile, nell’introduzione alla monografia «Rafael Arutjunjan» così ha apprezzato il significato della tesi per tutta l’attività artistica del maestro: «In questa prima scelta ho visto i tratti del carattere che hanno determinato molte cose nel Suo comportamento vitale e creativo. Non c’è bisogno di ricordare che si tratta dell’epoca, quando la menzione dello sterminio sistematico degli ebrei ha provocato il dispetto da parte del partito e del governo. Sia il Suo progetto un atto di ribellione, che in seguito ha ricevuto il nome di dissenso? Non lo so. Credo che sia stata una cosa diversa e forse qualcosa di più: la manifestazione della libertà interiore».

Non si sa come sarebbe finita la riunione della commissione esaminatrice, se Arutjunjan abbia fatto gli studi a San Pietroburgo oppure Mosca. Ma l’Estonia a quel tempo era probabilmente la repubblica sovietica più liberale e indipendente, dove l’influenza dell’arte occidentale si sentiva più forte, e Arutjunjan ha ricevuto il diploma di laurea con il punteggio più alto. Inizia così il donchisciottismo dell’artista, la via di combattimento con ogni sorta di Male.

Secondo le regole esistenti di allora, ogni laureato d’arte dopo la difesa della tesi ha dovuto lavorare un anno o due o tre in un ente di profilo culturale, e solo dopo venire in un certo giorno all’Università, per una solenne cerimonia di conferimento dei diplomi di laurea. Il suo anno Arutjunjan ha lavorato a Baku quale dirigente del circolo di scultura nello stesso Palazzo Centrale di Pionieri, e al tempo libero, due volte per settimana, ha insegnato il disegno in una scuola. Nel corso di quest’anno è riuscito a sposarsi, ottenere il diploma di laurea e di deludersi nell’ambiente artistico di Baku: «Ho lasciato un ambiente civile, accogliente nei miei confronti, e sono tornato in un atmosfera complicato, in cui ribollivano discordie creative e non-creative che arrivavano a volte quasi ai scontri di gangster con l’utilizzo delle armi bianche e quelle da fuoco, in cui ogni terzo scultore aveva l’ordine dello stato per il monumento di Lenin, più spesso con la mano tesa in avanti, dove le sculture ordinate e «creative» non si distinguevano molto».

Con il diploma desiderato in tasca, alla soglia di una carriera creativa, pieno di pensieri, idee e progetti, Rafael all’improvviso è rimasto di fronte a un dilemma: essere straniero a casa o uno familiare tra i stranieri. Ascoltare la chiamata del cuore e tornare a Tallinn o rispettare le tradizioni e rimanere a Baku? Dopo qualche esitazione, ha scelto il primo e… ha provato la paura: le persone più vicine, la madre e la moglie, riescono a capirlo?

Era scioccato di quello che la mamma ha detto: «Mi dispiace che ti ho portato indietro a Baku (la madre è venuta da me per essere presente alla difesa della tesi). Dovevi rimanere lì, a Tallinn, li tu puoi avere un futuro. Qui non ce l’hai, ed è improbabile che ce l’avrai. Ho vissuto una vita, e so quello che dico. Li hai trovato amici, colleghi, e proprio l’aria di Tallinn ha effetto benefico sulla tua creatività. Lo so che la tua vita consiste nell’attività creativa».

Invece con la moglie, – dice Rafael, – ha avuto le trattative lunghe e noiose, fino a litigarsi. Cresciuta in una famiglia molto lontana dall’arte, non riusciva a capire che cosa gli costringe di rinunciare a tutto ciò che è caro e amato – amici, famiglia, città natale, e lo porta in questa terra fredda dove le persone sono così riservate nelle loro emozioni che sembrano loro stessi le statue. Ancora più di sua moglie, i suoi genitori erano opposti alla decisione di partire. Rafael si sentiva troppo infelice e correva disperato da una parte all’altra, senza sapere che cosa preferire.

E ancora una volta la madre gli è venuta in aiuto. In questo momento con la sua morte improvvisa e prematura. Sembrava che con il suo decesso lei gli dava l’ultimo slancio mancante per non rompere la sua propria vita. «Per me è stato un colpo da cui non ho potuto rimettermi per anni. E venuto un sentimento di profonda solitudine. Nessuno mi capiva come lei, e mi sembrava allora, non mi amava cosi. <…> Le ho detto addio in pensiero, mi sono licenziato in fretta e avendo fatto le valigie in un giorno, ho preso il volo per Tallinn», – ha ricordato Rafael.

Per quanto riguarda la giovane moglie Irene, come si è stato rivelato più tardi, lei amava forte non solo la sua casa, i suoi amici e la sua città, ma anche suo marito. Quindi, appena ottenuta la laurea universitaria, è immediatamente trasferita a Tallinn per cominciare a costruire una lunga e felice vita coniugale.

Per il momento il giovane scultore è riuscito a sistemarsi al posto nuovo. Tutti i problemi quotidiani si erano risolte abbastanza veloce; Olav Männi ha aiutato con la registrazione per luogo di residenza a Tallinn, Boris Moiseevich Bernshtein è intervenuto per ottenere lo studio, Matti Varick ha trovato un lavoro. In quei giorni, trovare un posto di lavoro per scultore era quasi impossibile, e Arutjunjan si è impiegato al reparto di elaborazione artistica di pietra, o più semplicemente, è diventato incisore su lapidi. All’inizio sembrava che questo lavoro, duro e triste, allo scopo unico di mantenere la famiglia, sarà temporaneo, ma l’artista l’ha dedicato 17 anni di vita ed ha minato la salute. Ma anche nutriva non tanto bene, perche i pagamenti erano scarsi ed a cottimo. La famiglia appena appena sbarcava il lunario. Ma questo lavoro ha dato a Arutjunjan la cosa più importante: la possibilità di creare come gli pareva, cioè la libertà. Per creare le sue opere rimanevano sere, fine settimana e giorni festivi. Per riposare non rimaneva nulla.

Nel 1968, la coppia Arutjunjan che viveva ancora nella stanzetta di nove metri aderente allo studio, ha avuto figlio. Il papa ha scelto per lui un nome rado e virile Areg. Questo antico nome armeno lui ha preso da una fiaba su Aregnazane e Nunufar. Si raccontava che quando un ragazzo di nome Aregnazane troverà sua fidanzata di nome Nunufar, il suo nome perderà la desinenza «nazane» e rimarrà solo l’iniziale «Areg». La parola «Areg» significa «sole», in senso figurato «Vita». Tra sei mesi è stato il turno di Arutjunjan di ottenere l’appartamento cooperativo di due vani, e, con l’aiuto del compagno universitario, il grafico Endel Palmiste, l’ha ottenuto. Cosi tutto nella vita di Rafael si è più o meno sistemato, ed è stato possibile passare alla realizzazione delle sue idee creative.

Nei primi anni i ritratti scultorei occupano un posto speciale nel suo lavoro. Sembra che lui può esprimere in materiale solido qualsiasi suo pensiero. «Irochka», «Tanya», «Testa di giovane donna», e più tardi «Maschera», «Testa di donna», «Sogni», «Testa decorativa», «Testa del figlio», «Viola», «Minas Avetisyan», «Allochka»… L’autore abbastanza facilmente riesce a trasmettere il ritmo nelle figure immobili, il ritmo interno della statica. Egli stesso, con la sua solita modestia, ha dichiarato: «Raramente mi permetto di chiamare la mia opera «il ritratto». Di solito scrivo «testa di un uomo», «Testa di una donna». Perche il ritratto è la cosa più difficile che può esistere nell’arte. E necessario esprimere il mondo spirituale del tuo interlocutore, la sua natura e al tempo stesso esprimerti».

Un grande appassionato dell’opera di Arutjunjan, critico d’arte, assistente del Presidente dell’Accademia Russa di Belle Arti Alexandr Sidorov nel suo articolo «Le spine e le stelle di Rafael Arutjunjan» ha descritto l’arte di ritratto del maestro: «Siamo sicuri che Rafael Arutjunjan potrebbe avere successo, diventare scultore molto popolare e richiesto, benestante a tutti gli effetti, se sia caduto in tentativo di specializzarsi nella realizzazione di ritratti scultorei dei personaggi famosi e delle persone «necessarie» per la sua carriera, altresì dei loro familiari, soprattutto i bambini e le rappresentanti del gentil sesso. Dopo tutto, proprio cosi è stato assicurato lo slancio senza precedenti e la prosperità invidiabile di pittori come Ilya Glazunov, Alexandr Shilov e Nikas Safronov. Ma rifiutando di riempire la galleria ufficiale dei lavoratori e dei contadini famosi, politici e personaggi della cultura, militari ed atleti, astronauti, esploratori polari ed altri «eroi del giorno», fatti secondo un clichè approvato dal centro e destinati alle omonime mostre «Nostro contemporaneo», Rafael Arutjunjan non ha intrapreso la strada dei pionieri di saloni d’arte, che ha avuto origine al tempo di pre-perestroika, e ora seguiti sia dai «potentati», sia dai nuovi ricchi post-sovietici di ogni genere».

La tentazione, di cui parla Sidorov, era davvero una sfida seria per tutti gli artisti di quel tempo. Molto spesso dovevano scegliere tra il successo, la fama e riconoscimenti, da un lato, e tra la fedeltà a se stesso, sincerità e verità dall’altro lato. La scultura monumentale più di ogni altra forma d’arte, era determinata da burocrazia. La maggior parte di scultura monumentale aveva il carattere ideologico, quindi, insincero. Arutjunjan, giovane ma già maturo nel senso creativo, ha fatto la sua scelta quando ha accettato di incidere le iscrizioni sulle lapidi delle tombe. Più tardi, ha formulato cosi: «Inizialmente, avendo capito tutta l’umiltà della lotta per l’ottenimento di commesse statali e la loro realizzazione, quando il consiglio d’arte ti domina, quando sei costretto a non essere se stesso, quando devi servire alle idee o alcune particolari persone prepotenti, ho fermamente deciso a non chiedere e cercare di ottenere le commesse, e vivere, cioè, guadagnare un pane quotidiano per se stesso e per la famiglia di qualsiasi altro mestiere».

Ma, tuttavia, un tentativo di conciliare l’inconciliabile Arutjunjan ha fatto. Nel 1970, il paese stava per celebrare in modo solenne e magnificamente il centenario della nascita di V. I. Lenin. I poteri ufficiali hanno deciso di rinnovare il monumento del leader del proletariato mondiale che si trovava di fronte all’edificio del Comitato Centrale del Partito Comunista d’Estonia ed hanno bandito un concorso. Rafael Arutjunjan immediatamente e con entusiasmo si è messo al lavoro. In primo luogo, perché per questa commessa statale non c’era bisogno di piegare il dorso, era bastato di vincere in una gara onesta, e in secondo luogo, era possibile creare una nuova immagine di Lenin: o uno stanco, o in dubbio, o quello trionfante, ma infine, senza la mano tesa in avanti.

Secondo uno dei membri della giuria, «nessun concorrente non ha presentato monumento così vicino all’immagine del leader come quello di Arutjunjan». Tuttavia, ai risultati aveva soltanto un premio di incoraggiamento e un senso di disagio dall’esperienza e di quello che ha visto nel corso della gara. Da allora Rafael Arutjunjan si è promesso di non lavorare più, in nessun caso, sulle immagini commissionate. Ha mantenuto la parola, giustificando cosi la sua decisione: «La costante presenza di concorrenza, invidia, sguardi obliqui a chi ha guadagnato di più, fanno male all’arte vera. Quando un artista inizia a sorvegliare ed annusare i suoi colleghi del reparto, cercando di determinare chi è più di talento e chi è più di successo, me lo sembra una versione intelligente del vivaio di scimmie. Qualcuno ha ricevuto una commessa, un tizio hanno menzionato nella stampa, e un tizio invece no. E solo pochissimi artisti non badano ai beni sociali e materiali, e guardano solo nelle profondità di se stessi. Solo pochissimi artisti sono in grado di sopravvivere, crescere, maturare e forse anche invecchiare prima di iniziare un dialogo con Dio. Solo cosi un artista rinuncia a tutto meschino e inizia la propria ricerca nel campo dell’arte».

Il decennio successivo è stato molto teso e produttivo. Nel 1970 Rafael Arutjunjan ha lavorato e ha partecipato a tutte le mostre municipali e repubblicane, e qualche volta in quelle al livello dell’Unione Sovietica. Ai ritratti scultorei lirici e filosofici si sono aggiunte le opere sui soggetti socialmente importanti e quindi emozionanti per Arutjunjan. La maggior parte dei casi lui ha reagito acutamente al dolore, l’ingiustizia, l’oppressione, e ha cercato di fermarli con i mezzi artistici. Nel 1973 la notizia del brutale omicidio del cantante e compositore Viktor Jara allo stadio di calcio a Santiago si era diffusa in tutto il mondo. Nel 1975 lo scultore ha espresso il suo dolore nella composizione «Arbore del dolore. In memoria di V.Jara». Generalmente gli eventi a Santiago hanno così scioccato Rafael Arutjunjan che il tema cileno è stato presente a lungo in altre sue opere: «Le ombre dei caduti chiamano. Santiago», «Questo è ripetuto in Cile». Nella stessa riga ci sono le altre opere: «Camera di tortura. Ai combattenti per i diritti umani», «Annata di dure prove. 1937», «Pagina di storia del mio popolo. Karabakh», «Ammonimento», sul disastro di Chernobyl, «Pazzo, pazzo mondo», sul dramma afghano, e molti altri.

La capacità dello scultore di sottilmente catturare e rispondere ai tragici eventi dell’epoca di Alexander Sidorov ha descritto come segue: «Estremamente sensibile alla sofferenza degli altri, Rafael Arutjunjan è costretto ad ammettere che l’umanità ha imparato male la lezione del passato, e il trionfo del decalogo della virtù cristiana non succede in un prossimo futuro. Nel corso degli anni, per il maestro stava diventando evidente la giustezza dell’idea che essere in opposizione ai problemi ed ai difetti del tempo non è il debito dei soli personaggi letterari («Danko») o degli individui eroici reali («La figura nello spazio. In memoria degli astronauti morti»), ma anche di ogni persona di buona volontà, adepto della giustizia, cioè di lui stesso».

In parallelo con l’espansione delle problematiche delle opere anche i mezzi artistici dello scultore si arricchivano in modo rapido. Si provava nei materiali diversi, in diversi generi, cercando di trovare nuovi mezzi di espressione. Alluminio, rame, bronzo, gesso, legno, granito lo attiravano con le possibilità sconosciute ed esprimevano docilmente i suoi pensieri e sentimenti. «I segreti della conoscenza del materiale si scoprono abbastanza a lungo, e se si lavora in diversi materiali ancora di più. Alcuni scultori si dedicano a un certo materiale, io invece ho avuto un interesse e la curiosità di tutti quanti. Forse non ho raggiunto l’altezza di maestria raggiungibile nel caso di utilizzo di un solo materiale, ma, tuttavia, ho sempre avuto il desiderio di capire i loro segreti,» – ha confessato successivamente l’artista. Il linguaggio figurativo è diventato più e più laconico e preciso, e le opere tanto più espressive e significative.

Tutti questi successi hanno convinto Arutjunjan che si è realizzato quale artista, e nel 1971 ha deciso di organizzare la prima mostra personale. Uno dei suoi compiti era quello di aderire all’Unione degli Artisti, perche in quel tempo era una regola generale per tutti. Tra i colleghi e gli intenditori la mostra aveva successo. Ma che sorpresa è stata per Arutjunjan quando ha letto sulla domanda di adesione all’Unione degli Artisti la seguente risoluzione: rifiutare a causa della mancanza di professionalità delle opere presentate. Ma Rafael Arutjunjan non ha posto una domanda ragionevole, perché ne hanno acquistate le sue opere e li hanno inviate alle mostre al livello di tutta l’Unione Sovietica. Sei anni più tardi ha fatto una nuova mostra personale, molto imponente, ed è stato subito ammesso all’Unione.

Nel 1977 Arutjunjan, per la sorpresa di molti, è aderito al partito. Qual era motivo di tale decisione di una persona quarantenne, indipendente nei suoi giudizi, apolitica, muratore con un decennio di esperienza, scultore noto nel paese e il membro dell’Unione degli Artisti? Probabilmente, svelare questo mistero ci aiutino le parole di Rafael Arutjunjan stesso: «Penso che la principale differenza della nostra generazione era la nostra fede. <…> Abbiamo creduto non perché eravamo stupidi e ciechi, ma perché eravamo carne della propria carne, i figli del nostro tempo. Questa fede non era solo la fede nel destino storico, nella grande missione del nostro paese quale paese con il sistema più avanzata al mondo, il socialismo, ma la fede in colui che ha creato questa formazione».

I giorni pieni di lavoro, di attività creativa e di bisogni di famiglia, formavano settimane, mesi, anni. Nel corso della giornata faceva il duro lavoro di tagliapietre in officina, le sere e i fine settimane lavorava per l’anima nel proprio studio. La vita dei giusti: «Vivo come lavoro. Internamente, apprezzo e sempre apprezzerò i giusti, e io stesso cerco di essere così. Come riesco, non lo so, ma tutta la mia vita cercavo di non peccare».

Ma dopo diciassette anni di lavoro di tagliapietre Arutjunjan si è sentito stanco. La salute, di cui non ha mai ricordato, ora e sempre di più chiedeva l’attenzione. Il cuore faceva male. Nel 1983 lo scultore ha deciso di cambiare lavoro: si è licenziato dall’officina e ha trovato posto allo stabilimento «Punane RET» quale riscaldatore: al turno tra due giorni al terzo dalle 16.00 alle 7.00 ha riscaldato voltmetri. Quindi ha avuto più tempo e forze per la creatività e per la famiglia. Così passò altri sette anni. Nel 1990 25 anni di anzianità sono stati compiuti, e Arutjunjan, senza un attimo di esitazione si è licenziato. Per la pensione di età gli mancava due anni, ma questo non lo fermava. Decise che dedica tutto il tempo a quello che ama: la creatività e la famiglia.

In questo periodo il paese enorme è scosso e ha cominciato a rovinarsi. Dopo la morte di Brezhnev che ha segnato la fine di un’epoca incolore e monotona, gli eventi politici si susseguivano così rapidamente che non bastava tempo per la comprensione. La confusione costante, smarrimento, paura sono piantati nelle anime e nei cuori… Arutjunjan armato già abilmente di mezzi di espressione artistica, stava pensando dei mezzi d’interpretazione della realtà. Alla ricerca del significato di ciò che sta accadendo l’artista si trasferisce dal concreto all’astratto, dall’immagine al simbolo. Tali opere di questo periodo come «Pagina di storia del mio popolo. Karabakh», «Requiem», «Alle vittime del terremoto», «Dedicato alle vittime dello stalinismo», «Drago. Frutto del sistema», «Discarica», «Teleponte», «Rovesciamento alla barra», non sono sculture classiche ma piuttosto costruzioni di molti componenti, o installazioni, che trasmettono meglio la confusione dell’anima umana. Secondo Sidorov, il lavoro creativo del maestro, a quel momento era simile all’iperautocriticismo spirituale, al gioco triste solitario con se stesso, alla compilazione degli enigmi spaziali, con il significativo chiaro solo per lui stesso, la cui chiave non è disponibile per il buon senso estetico, che vede qui solo una «Discarica» di oggetti casuali («Discarica»).

Nel 1997 la quarta mostra personale di Rafael Arutjunjan ha avuto luogo presso il Centro Culturale in via Sakala. E stata programmata per il 60 anniversario del maestro, erano presentate più di 100 opere. I critici, i colleghi e gli ammiratori del maestro hanno visto in queste opere le testimonianze univoche dei cambiamenti notevoli nella maniera creativa dello scultore. Era ovvio che si è allontanato dai suoi soliti canoni, ha perso interesse per i materiali naturali. Gli esperti hanno detto che è una uscita al concettualismo, quando il materiale, le immagini concrete vengono sostituite da simboli e convenzioni, e la ricerca della verità non si svolge più nel materiale stesso, ma nella sua sostanza combinatoria e nello spazio circostante. Arutjunjan stesso ha parlato su questo periodo così: «Mi sembra, in scultura, ho spremuto da me stesso il mio meglio». Praticamente lo stessa idea è stata espressa e da Alexander Sidorov, in questo senso: «Ha messo l’ultimo punto eloquente sulla sua carriera dell’artista-scultore. Non è la mano malata, è una spiegazione troppo prosaica e non fondamentale, ma l’anima dell’artista, dolorosa, straziata e sfinita dalle esperienze tragiche del XX secolo ha messo questo punto».

Dopo la quarta mostra personale Rafael Arutjunjan, inaspettato per tutti, è sparito dalla scena artistica della capitale, per presentarsi, tra cinque anni, nel 2002, alla mostra personale, in due aspetti nuovi, quale grafico e pittore. La mostra con 230 opere ha avuto luogo nella stessa sala in agosto 2002. Ecco come Rafael Arutjunjan ha ricordato questo periodo: «Il mio nome quale scultore era già ben conosciuto non solo tra i professionisti, ma anche tra il pubblico estone, ma nessuno mi conosceva quale grafico e pittore. Quindi, c’era molto interesse mescolato con una certa confusione: Quale Rafael Arutjunjan? Rafael? Ma è uno scultore! Ci sono 230 opere?! Dobbiamo vedere … »

E venivano, guardavano, ammiravano, meravigliati. E non per niente. Un disegnatore di talento, ha espresso nelle linee e tratti, con la precisione notevole e profondità, non solo i dettagli del rappresentato, ma anche pensieri, sentimenti, dubbi. Nei ritratti, quelli di famiglia e collettivi, in una serie animalesca e nelle allegorie multilaterali, lui, come nella scultura, cercava di nuovo e trovava le risposte alle sue preoccupazioni.

Per quanto riguarda i dipinti esposti, gli hanno prodotto l’effetto di una bomba esplosa. Senza alcuna somiglianza ma molto riconoscibili, paradossali nella forma ed armoniose del concetto, inaspettati, luminosi e contrastanti, i quadri per molto tempo non lasciavano andare i visitatori, costringendoli a pensare, ricordare, analizzare, confrontare. Svegliavano l’immaginazione, facevano rivivere i ricordi, creavano analogie, facevano domande… La forma trovata da Arutjunjan può essere convenzionalmente chiamata «l’oggettività riflettuta», per analogia con la «nuova oggettività», sostenuta dal cubismo all’inizio del XX secolo. La sua essenza si riduce al seguente: che tutti gli oggetti abituati strappati dal contesto normale degli oggetti circostanti appaiono nelle combinazioni occasionali, paradossali. Secondo Alexander Sidorov, l’artista ha scoperto un nuovo genere, il genere del ritratto festoso, ritratto-regalo e talismano, che sempre include o le «pietre colorate come un saluto in onore del bene e della bellezza» («Nipotina Diana»), o le parole intarsiate dalle conchiglie «A te da me» («Dedica alla moglie»), oppure una «collana di ambra e un fiore bianco con perle in mezzo, il simbolo del sole e di bontà, quale valori eterni» («Vika»), oppure i segni dello Zodiaco e «le pietre dal malocchio» («Tatiana Shteinle», «Nastenka», «Ragazza e criceto», «Rimma Kazakova», «Lada», «Ritratto di Gurova»).

Nei suoi dipinti l’artista continuò il dialogo con Dio, iniziato molti anni fa. Solo ora sembrava più forte di prima. Nei titolo di dipinti si presentava così: «Dio è l’amore», «Carpentiere ecumenico», «Le vie del Signore sono infinite», «Candela del Signore», «Icone nello spazio», «Volando in paradiso», «Volando all’inferno», «Rivelazione», «Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci…» L’essenza delle idee teologiche di Rafael Arutjunjan è espressa pienamente nel quadro «Croce»: l’unità, l’uguaglianza e l’innalzamento di tutte le religioni principali del mondo. «Le verità bibliche mi sembrano incontestabili. Sono provati per millenni. Ma è impossibile basarsi solo su queste verità; dopo tutto, la vita è molto varia. Posa sempre le nuove e nuove domande e spesso mette una persona in imbarazzo. Bisogna partire dalle verità bibliche, ma poi proseguire indipendentemente, verso la propria verità, verso la propria cima».

Sembrava che tutto è sistemato, la vita è riuscita bene. Il figlio Areg è cresciuto, ha finito la scuola, il servizio militare, si è laureato, ha sposato per un grande amore Svetlana e ha avuto una figlia, Diana, e poi dopo il figlio Gabriele. Avendo ereditato dal bisnonno Grigor Melik-Shahnazaryan la capacità imprenditoriale, anche lui, come il suo antenato, ha cominciato a costruire il suo business da zero. La sua moglie Irina, dopo aver lavorato per molti anni come caposquadra nel reparto di doratura e argentatura nello stabilimento «Kalinin», è finalmente andata in pensione. Ha sostenuto la passione di Rafael per pittura, contenta che ora lui tutto il giorno sta davanti a lei, gli aiutava come poteva, anche andando con lui per i negozi alla ricerca di «pietruzza, conchiglie» per i suoi quadri. Venivano i conoscenti, Rafael faceva i loro ritratti, si svolgevano diverse conversazioni interessanti, e negli intervalli tra le sedute prendevano il tè tradizionale. Rafael e Irina hanno trovato, finalmente, tutto quello che hanno sognato fin dalla giovinezza: la fama, il riconoscimento, bravo figlio, bei nipoti… Ma rimanere, sempre tenendosi per mano, in cima della loro vita e sogni, non era destino a lungo. Il 26 gennaio 2003 Irina morì.

Caduto nell’abisso senza fondo della solitudine, della tristezza e del dolore, Rafael tacque. Ha speso tutte le forze per riconoscere la perdita. Il resto ha perso ogni significato. Lentamente, con la cura compassionevole dei familiari, Rafael ha intrapreso la via di superamento della crisi. Al posto dello shock è venuta la rabbia che a mala pena si trasferisce alla fase di riconciliazione o negazione, sostituiti da un vero dolore, un momento in cui il dolore è massimizzato e una persona prova una vera e propria sofferenza. La tristezza non elaborata è il freno della vita, perché una persona resiste più di tutto alla tristezza. La resistenza di Rafael durava due anni. Forse persisterebbe fino ad oggi se non fosse Areg e la sua famiglia con la loro cura, pazienza e amore. In questi due anni è entrato tutto, dalla creazione del sito dell’artista su Internet e del viaggio per la Mecca d’Arte, l’Italia, all’edizione della monografia dell’artista di 600 pagine colorate, con le magnifiche diapositive con tutte le sue opere.

Nel 2005 Rafael ha finalmente fatto l’ultimo passo per superare la crisi, riconciliarsi con la situazione ed imparare in qualche modo a vivere con il suo dolore: «Il più doloroso è un senso di disperazione, con cui vivo. E davvero vivo? Proprio questo che non voglio affatto. Anche il figlio, nipotini e nuora, sensibile e dolce, non possono riempire l’immenso vuoto nella mia anima lasciato dalla morte della mia cara compagna di vita con la quale ho passato quasi quarant’anni».

Ha preso di nuovo i pennelli dimenticati nelle mani e ha cominciato a dipingere. La mostra del 2007, in concomitanza con il 70 anniversario dell’artista, ha raccolto 50 opere fatte in questo periodo. Se esisti l’usanza di dare i nomi alle mostre personale, questa avrebbe il nome «Sofferenza». In questo senso, l’opera centrale è il dipinto «Passante», la figura immobile di un vecchio chino sul bordo della macchia luminosa, circondato dalle mura cieche. Il colorito immerge lo spettatore in uno stato di tristezza, i mezzi figurativi risvegliano l’empatia e l’accuratezza compositiva porta l’occhio in un piano verticale, cercando almeno un po’ di spazio. Ma non esiste. Lo sguardo consapevole della disperazione torna di nuovo alla figura solitaria e immobile e si alza quasi involontariamente. verso l’uscita. Al cielo. A Dio.

Gli ammiratori e gli intenditori d’arte di Arutjunjan prestano attenzione alla sua fedeltà ai suoi ideali, alle tematiche, all’umanesimo. Come prima lui parla con Dio: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio», «Cammina sulle onde», «… E lo Spirito Santo in forma di colomba si posa su Lui», «… Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo», «Al Santo Sepolcro», «Resurrezione di Lazzaro», il trittico «Sul Calvario, Gesù. Deridente. Penitente», «Ascoltaci, Signore!»… La moglie sempre occupa un posto importante nel suo lavoro creativo («Il mondo su di te è bello, ma tu non ci sei», «Sia santificato il Tuo nome», «La favola della vita è finita», «Il mio angelo volò via», «Vola in alto il mio angelo, non raggiungere, non abbracciare») e i membri della famiglia («Nipotino Gabriel», «La mia Dianochka»). E come sempre l’artista cerca la sua verità: «Eternità», «Il messaggio № 1», «Il messaggio № 2» …

La natura confessionale, da quale abbiamo iniziato questa storia di vita e dell’opera «dell’artista estone di origine armena» Rafael Arutjunjan, in un modo o nell’altro unisce tutti i tipi della sua opera: e la scultura, e il disegno e la pittura. Ma più forte e più acuto si fa sentire nella sua poesia. Nel libro «100 versi», pubblicato nel 2004, sono raccolte le poesie scritte dall’autore durante tutta la vita. «La poesia è quello che non ho finito a raccontare nella scultura. Oppure quello che, può darsi, non vale la pena di dire nella scultura. Basta dire nei versi, ma cosi sincero come nella scultura. Invece nella scultura dovrebbe essere una confessione. Quindi … quindi sono un po’ confuso per loro», – ha detto l’autore.

A volte ingenui e semplici, a volte alti e solenni, i versi raccontano la vita dell’Anima, inquieta, contrastante e inesplorata. Lasciate che una di queste notevoli poesie completa la nostra narrazione incompleta.

 

Sfoglio gli anni passati,

E leggo la propria vita,

E i voli dell’anima sconfinata

Io porto al vostro giudizio.
Guardate questa sciocchezza,

Leggete della vita nell’inferno

Ce ne di mio coraggio e debolezza,

Tutto onesto, non sto mentendo.
Non giudicare rigorosamente in un colpo,

Vi apersi la profondità.

Non si può metterla in qualsiasi frase,

Né in un verso squisito.
Degli istanti e dell’eternità,

Dell’amore lasciato in eredità

Della mia e sua peccaminosità

Ho scritto un opera con le parole.

 

Amatemi per la mia debolezza,

Non perché tra poco morirò,

Ma perché ho il coraggio

Aprirmi con il cuore sulle labbra.

 

Emma Darvis